sabato 3 gennaio 2009

Ricordando Roby Margutti.

E’ stato don Onelio a farmi conoscere Roby Margutti. Gli aveva chiesto un incontro per verificare se la Comunità poteva in qualche modo aiutarlo nei suoi progetti, e il don aveva voluto che fossi presente anch’io. Ci sono immagini che non si riescono a cancellare. E la scena di Roby e don Onelio che si confrontano nell’Ufficio della Piergiorgio è una di quelle. Ambedue con il corpo irrigidito sulla carrozzina, ma con la mente piena di progetti, di voglia di fare… Come se l’iniziativa che non riusciva a trasferirsi ai muscoli del corpo, si fosse concentrata sul piano delle idee. Idee maturate nella rigidità del corpo e diventate anch’esse rigide ed inflessibili. Condividevano la stessa situazione di partenza, nell’immobilità totale del corpo sulla carrozzina, provocata dalla sviluppo in trenta anni della sclerosi multipla per don Onelio, da un incidente festeggiando il 21^ compleanno per Roby. Si battevano per lo stesso obiettivo delle pari opportunità: anche il disabile deve essere posto nelle condizioni di potersi realizzare. Ma sul modo avevano delle idee che parevano a loro contrapposte. E a nulla valeva la mia mediazione nel farli capire, che non erano contrapposte, ma solo diverse: due percorsi diversi per raggiungere la stessa meta. Due percorsi che per un tratto potevano essere anche riuniti e diventare una unica strada.
“Una comunità gestita dai disabili” diceva don Onelio, “costituisce l’unico mezzo possibile per mettere i disabili nella condizione di realizzarsi”. “Non basta!” replicava Roby “Si deve poter andare oltre, una comunità comporta comunque dei condizionamenti. Anche al disabile deve essere riconosciuta la libertà della “vita indipendente”.
C’erano a dividerli anche quaranta anni di storia sulla disabilità. Don Onelio aveva vissuto gli anni settanta. Sull’onda del ’68 aveva sviluppato l’idea della comunità, come mutuo aiuto. Stare assieme, per aiutarsi a vicenda, e nel mutuo aiuto recuperare l’autonomia... Erano ancora i tempi nei quali i disabili venivano nascosti in famiglia. E quando questa non c’era ospedalizzati a vita. Spesso in un ospedale psichiatrico, che al tempo fungeva spesso anche da lungodegenziario. Le battaglie erano quelle per l’integrazione nelle scuole, nel lavoro, nella società, per il superamento delle barriere architettoniche e per la vivibilità del territorio anche da parte dei disabili. Roby arriva sul tema della disabilità, negli anni novanta. Prendendo atto delle conquiste ottenute si doveva andare oltre: il disabile ha diritto ad una vita indipendente, la società deve metterlo nelle condizioni di poter vivere la sua individualità.
Si sono poi incontrati altre volte. Don Onelio avrebbe voluto che Roby entrasse in Comunità, nella sua grinta ritrovava la determinazione che l’aveva spinto negli anni pionieristici della nascita della Comunità. Pensava in cuor suo d’aver trovato la persona giusta alla quale passare il testimone, la persona che avrebbe saputo dare nuovo vigore al suo sogno di una comunità per i disabili gestita dai disabili. Ma per Roby l’obiettivo era quello della vita indipendente…
Per loro “comunità” e “vita indipendente” erano diventate le parole di due fedi diverse, inconciliabili. Li guardavo, stupito, ammirato, confuso, provando vergogna di fronte a tanto coraggio... Per lottare in quelle condizioni, per non lasciarsi abbattere, per non rinunciare, per non abbandonarsi al più che giustificato vittimismo, non basta una idea… E’ necessario che l’idea diventi una fede, che ti trascina oltre l’immobilità del corpo. E le fedi non accettano compromessi, non possono essere che assolute…C’era negli occhi di quelle due persone che si guardavano e si parlavano immobili sulle loro due carrozzine, una luce che non avevo mai visto prima negli occhi di nessuna persona. Ho pensato che fosse quella luce a far in modo che vedessero anche in quelle condizioni la vita vivibile. Non solo! Che trovassero la forza per pensare anche agli altri, a coltivare progetti per tutte le altre persone nella loro situazione.
Mi piacerebbe immaginare di poterli ricordare entrambi, un giorno nell’incontro con una persona con la stessa luce negli occhi, capace di mettere assieme le loro idee. La Comunità gestita dai disabili nel 2000, non può essere più quella degli anni settanta del novecento, non può essere più una comunità sentita come valore in sé. Deve essere immaginata come un punto d’appoggio per la vita indipendente. In questo essere punto d’appoggio, per tutto il sistema della disabilità della Regione, mi sembrerebbe che potrebbero venire a sintesi le idee di Roby Margotti e di Don Onelio.
Nell’attesa mi resta il ricordo della luce di quegli occhi, nella sala del caminetto della Comunità Piergiorgio. Ardeva, come sempre, il fuoco con un grande ciocco. Solo un pezzo di legno morto. Ma una volta acceso è capace di riscaldare ed illuminare, come le parole e gli occhi di Roby e don Onelio, dai loro corpi, come morti, immobili sulla carrozzina…Grazie ad ambedue per la vergogna che ho provato sempre davanti alla loro grandezza d’animo, alla profondità dei loro sentimenti, alla spudoratezza della loro speranza, alla oscenità della loro generosità, alla sfrontatezza del loro coraggio nel superare gli ostacoli, per trasformare le speranze in fatti concreti.
Se noi normodotati riuscissimo a vivere ogni giorno questa vergogna, a trasferirla ad altri, a farne la trama su cui sviluppare l’educazione dei giovani…

Il ricordo di Anna.


Anna è entrata in Comunità nel 1976 e ci vive ancora. Non ha vissuto l’esperienza della nascita, che riporta come testimonianza di altri, ma per oltre quaranta anni la sua vita si è intrecciata con quella della Comunità...e per trenta con quella di don Onelio.

L’origine della Comunità è, come probabilmente molti sanno, strettamente legata alle figure di due sacerdoti: il primo, don Onelio Ciani, ammalato di sclerosi multipla, e il secondo, don Piergiorgio Fain, cappellano in una parrocchia vicino all’istituto riabilitativo Gervasutta di Udine.
Come mi è stato riferito, l’incontro decisivo fra i due preti avvenne nel 1970 proprio tra le mura del Gervasutta, dove don Onelio era ricoverato e dove don Piergiorgio andava ad animare le persone dell’istituto con i ragazzi della sua parrocchia. Don Onelio, leggendo la storia di una piccola comunità marchigiana di disabili nata qualche anno prima per renderli protagonisti della propria vita, decise di andarla a visitare assieme a don Piergiorgio, ad altri 5 ospiti e amici del Gervasutta e a dei volontari.
Il viaggio voleva essere un’occasione per conoscere l’esperienza di Capodarco e per rendersi conto se la stessa idea di comunità fosse fattibile anche a Udine…
Così fu. Purtroppo però quei giorni furono fatali per don Piergiorgio, poiché, mentre aiutava una persona a infilarsi il salvagente in mare, ebbe un infarto e non riprese più conoscenza.
So che nonostante questo fatto così drammatico, il legame con Capodarco e la sua esperienza di comunità ormai si era instaurato. I contatti continuarono per tutto l’anno e a ottobre, anche grazie all’aiuto di alcuni comunitari di Capodarco, un gruppetto di disabili e volontari friulani, tra cui in primis don Onelio, decise di iniziare l’avventura della convivenza all’interno di un ex asilo a Treppo Grande. L’esperienza, motivata da tanto entusiasmo e voglia di donarsi gli uni agli altri nonostante le difficoltà economiche e tecniche esistenti, fece così scalpore che dopo pochi mesi ecco entrare in scena il terzo prete decisivo per la Comunità, don Emilio De Roja.
Quest’ultimo, che aveva fondato una casa di accoglienza per giovani disadattati in periferia di Udine, chiamata Casa dell’Immacolata, decise infatti di donare il primo edificio utilizzato per il suo collegio, avendo ormai fatto costruire uno stabile nuovo. Inoltre con i suoi ragazzi adattò la casa per farla diventare accessibile.
In questo modo il 17 luglio 1971 prese corpo effettivamente l’attuale Comunità, intitolata a don Piergiorgio per sottolineare che chiunque ne avesse prima o poi fatto parte era invitato ad andare almeno un po’ al di là del proprio io come aveva fatto lui.

Mi hanno raccontato che i primi “avventurieri” erano meno di dieci persone, di cui la maggior parte disabili fisici, che venivano seguiti e ad aiutati da un numero variabile di volontari, i quali si alternavano di giorno e di notte. Questo gruppo, a parte un paio di persone che erano arrivate direttamente da Capodarco per sostenere la nascita di un nuovo obiettivo comunitario, proveniva tutto dall’Istituto Gervasutta.
Con il passare dei mesi però si aggiungono altri ospiti, raggiungendo quasi il numero di 15 persone che convivevano e condividevano gli spazi, “accampati” alla meglio. Accanto a questi disagi tecnici, poi, si aggiungevano anche quelli economici: Don Onelio ricordava sempre che la prima cassa comune della Comunità consisteva di ben 500 lire!
Per far fronte al sostentamento di tutti i comunitari, quindi, fu necessario che ognuno si rimboccasse le maniche, sia per quanto riguardava l’assistenza che per le attività remunerative.
Si iniziò così una raccolta di carta e stracci in giro per Udine e dintorni (a quei tempi infatti fruttava bene), grazie all’aiuto di alcuni volontari che affiancavano un nuovo ospite della Comunità che percorreva la città in lungo e in largo col suo carretto. A questo si aggiungevano le offerte di amici e simpatizzanti e le prime attività che alcune aziende commissionavano alla Comunità, come ad esempio il rifinimento di stivali femminili o di neon per acquari.

A quei tempi all’interno della Comunità il clima che respiravamo era di entusiasmo e di intraprendenza, e si andava costruendo qualcosa che assomigliava a una famiglia. E come in ogni famiglia che si rispetti a volte accadevano anche episodi buffi, che magari all’inizio ci sembravano seri, ma che alla fine si rivelavano comici e rallegravano così l’atmosfera quando le diversità fisiche e psicologiche si facevano sentire.
Nonostante tutto questo fermento e questa voglia di fare, dall’ esterno l’esperienza della Comunità Piergiorgio era vista negativamente e i comunitari erano considerati un gruppo di “matti”… Però noi abbiamo continuato imperterriti per quella strada. E non era passato neanche un anno che c’erano già una marea di volontari, amici e affezionati che aiutavano come potevano, o venendo direttamente in Comunità per prestare assistenza e sistemare la casa, o con delle offerte. In questo modo si ottenne anche l’approvazione e l’incoraggiamento del vescovo, oltre che delle parrocchie della zona.

Voglio ricordarvi che lo sviluppo della nostra realtà, almeno agli inizi, è stato garantito e supportato, oltre che dai collaboratori di Udine, da alcuni nostri amici di Capodarco. Questi si sono fermati quasi un anno in Comunità Piergiorgio per aiutarci a dare l’ impronta decisiva, lasciandoci comunque l’autonomia nelle scelte organizzative ed economiche. Poi pian piano siamo riusciti ad andare avanti da soli, pur mantenendo per lungo tempo un legame affettivo e anche di aiuto con Capodarco.
Un altro contributo essenziale secondo me fu quello del volontariato, sia individuale che di gruppo. Nei primi anni ’70, infatti, il volontariato aveva assunto un significato importante all’interno delle esperienze nuove che, come Capodarco, valorizzavano gli “ultimi” per renderli persone a tutti gli effetti, mettendoli al centro di una vita pressoché normale.
I volontari che ci venivano ad aiutare erano sia maschi che femmine, per lo più giovani, che prestavano il loro servizio parzialmente, per qualche ora al giorno, o continuativamente, vivendo in Comunità. Questi, in particolare, avevano fatto proprio una scelta di vita, perché avevano deciso di condividere tutto con chi aveva meno. Spesso queste persone hanno poi perseverato nella loro scelta anche al di fuori della Comunità, dando sempre la precedenza ai disabili o alle persone emarginate.
Altre figure per noi importanti furono sicuramente gli obiettori di coscienza, all’inizio non ancora legalmente riconosciuti, che diventarono presto un supporto fondamentale per tutti i comunitari. Proprio come in una famiglia si occupavano di varie cose, dal portarci in giro al farci assistenza, dal dedicarsi alla cucina fino all’affiancarci nella nascente attività di rilegatura. Infatti, dopo i primi anni di commissioni esterne che alla lunga non ripagavano degli sforzi che stavamo facendo, decidemmo di metterci in proprio, dando inizio alla prima rilegatoria. Grazie alla donazione di alcuni, seppur vecchi, macchinari e all’aiuto esperto di volontari (tra cui proprio un rilegatore in pensione e uno, disabile, che aveva una piccola attività a domicilio), inaugurammo nel 1978 un’attività che dava lavoro ai comunitari ma anche che ci permetteva di vivere la dimensione lavorativa, dando nuovo senso alla nostra vita.

Pian piano i laboratori si allargavano, sia con le persone interne alla Comunità che con qualche esterno diurno, senza però che ci fosse ancora stato un effettivo riconoscimento formale come Centro Diurno. Questo avvenne verso la fine del 1977: la Comunità Piergiorgio veniva ufficialmente definita Centro Medico Sociale, con tanto di servizio di fisioterapia. Inoltre con le rette che l’Azienda Sanitaria (la vecchia USL) pagava per ogni comunitario interno si iniziò ad assumere alcuni dipendenti, tra cui una fisioterapista. Grazie a questa nuova entrata, aggiunta alla raccolta di carta e stracci (perché la rilegatoria ancora non riusciva a produrre fondi), si riuscì a terminare le sistemazioni dell’edificio in uso (alcune anche causate dal terremoto del 1976) e a costruire gli attuali nuovi fabbricati.

Voglio soffermarmi un attimo a raccontarvi come abbiamo vissuto il terremoto che ha colpito tutto il Friuli nel 1976.
A maggio io non ero ancora arrivata in Comunità, ma a settembre c’ero eccome!
A parte il tetto, la Comunità, grazie alle murature di una volta, era uscita abbastanza indenne dalla scossa di maggio. Ovviamente non era stato possibile evitare l’enorme spavento di tutti.
Ricordo che verso le 17:30 dell’11 settembre mi trovavo nella stanza dell’attuale caminetto e stavo scrivendo a macchina delle lettere. Improvvisamente si sentì un fortissimo boato e, prima che me ne rendessi conto, mi trovavo fuori, sulla piazzetta con la fontana, che oggi è stata soppiantata da molti condomini. Qui intorno a quei tempi infatti c’era praticamente solo aperta campagna. Quindi mi ritrovai all’esterno, senza neppure aver avuto il tempo di capire chi mi ci aveva portato! Mentre ci trovavamo fuori assistemmo impotenti e impauritissimi ad altre scosse che facevano oscillare la Comunità da destra a sinistra, quasi che non sapesse da che parte cadere. Per fortuna tutti erano riusciti ad uscire in tempo! Per quella notte e altre successive, non fidandoci di rientrare (se non per le emergenze e per mangiare), abbiamo addirittura dormito in tre dentro al camion che si usava per la raccolta della carta. Mettemmo due o tre materassi e qualche coperta; un'altra persona dormì nella cabina e noi, da dietro, non capivamo se i movimenti che sentivamo fossero ancora scosse di terremoto o i movimenti di quella persona nel sonno!
Quando ci decidemmo a rientrare in Comunità prendemmo in pieno la scossa delle 5 del mattino del 15 settembre, anche se non ci recò danno, per fortuna! La paura però non fece 90, fece 100! Dal bar vicino arrivava addirittura una signora con una bottiglietta di cognac per stimolarci e aiutarci a vincere il panico.
Poi, grazie a Dio, quei giorni, vissuti tra il drammatico e il comico, terminarono e fortunatamente, a parte il tetto e alcune crepe, non ci furono grossi danni, nemmeno alle persone. Restarono solo dei ricordi indelebili. Con l’anno successivo, come ho detto sopra, partimmo con la ristrutturazione e con l’ampliamento dell’intero stabile.


Nel 1977, infatti, oltre a completare l’ambiente principale in cui si viveva, iniziò anche la demolizione dei box (delle ex-porcilaie che erano state fino a quel momento adibite a lavanderia, guardaroba e piccolo laboratorio) per recuperare l’area in modo da costruire gli attuali edifici. Questo spazio era stato dato in donazione da parte del Comune alla Comunità ed era quindi edificabile. Mi ricordo che per recuperare i fondi necessari per la nuova struttura nascente, tutti si davano da fare, chi lavorando nella rilegatoria appena nata, chi andando a fare public relations sul territorio. Ognuno in questo modo cercava di dare il proprio contributo con le capacità che poteva mettere a disposizione per la Comunità. Io, che avevo problemi di vista e di manualità, ma che avevo tanta voglia di stare tra la gente e comunicare, iniziai ad andare sia nelle parrocchie che nelle scuole (elementari e medie), coinvolgendo bambini e adulti.
Un’altra attività di cui ci occupavamo per farci conoscere era l’organizzazione di lotterie e altro. Ricordo che una volta, in un freddo dicembre, nel giro di tre giorni avevo recuperato tra i 18 e i 19 milioni di lire, che allora era davvero un’enorme cifra! Finché, anche grazie ai contributi e ai finanziamenti della Regione e del Comune, venne posata la prima pietra: era il 24 dicembre 1981.
Nel luglio dell’anno successivo vennero poi inaugurati i primi locali: un piccolo ufficio (il predecessore dell’Ufficio H attuale), il laboratorio. Il laboratorio iniziò ad essere utilizzato dalla piccola cooperativa Arte e Libro e dalla neonata cooperativa Legotecnica, che dava lavoro a disabili con maggior manualità.
Quasi contemporaneamente, poi, venne avviato un centro diurno negli spazi in cui oggi si trovano gli uffici amministrativi. Quella volta il numero di persone era ancora limitato e ai trasporti provvedevano gli obiettori e i volontari della Comunità stessa.
Siccome il Centro Diurno andava sempre più ampliandosi per il numero di persone coinvolte, con l’obiettivo di dare un periodo di respiro alle famiglie e agli utenti l’opportunità di inserirsi nel tessuto sociale anche imparando a compiere dei piccoli lavori, qualche anno dopo la Legotecnica si spostò in un’altra sede e lasciò lo spazio sia al Centro Diurno che all’Arte e Libro. Nel frattempo venne ingrandito l’Ufficio H, costruita la sala mensa, ampliati gli attuali uffici e le stanze sotterranee.

Sempre in quest’ottica di ingrandimento della Comunità (fine ’77 – inizi ’88), venne creato il primo mini-nucleo abitativo in un appartamento di via Asmara, di proprietà del Comune, a cui veniva pagato un affitto simbolico. Questo nucleo era costituito da tre persone, Leonilde, Paola e Grazia, che, dopo un periodo trascorso in Comunità, sono di fatto state le prime persone a volersi lanciare in questa nuova esperienza. Anche loro si autogestivano, con un unico piccolo contributo economico da parte della Comunità e tanti aiuti dai volontari e dagli amici. In questa loro scelta furono sempre stimolate e sostenute da Don Onelio e da Bruno.
Questo piccolo gruppo andò avanti fino alla morte di Leonilde, momento in cui iniziarono a cambiare alcune cose, sia per quanto riguarda la composizione del nucleo che per la struttura stessa. Dopo un periodo in cui subentrarono altre persone provenienti dalla residenza, negli anni ’90, per apportare alcune modifiche e ampliare l’appartamento, l’esperienza venne sospesa. Riprese nel marzo del ’94 e io stessa ne presi parte assieme ad altre 5 persone, di cui alcuni volontari. Eravamo autosufficienti per quanto concerneva l’assistenza e la gestione della casa, mentre per i pranzi e le cene soltanto per il weekend, perché durante la settimana andavamo in Comunità. Poi, dalla fine del ’95, ampliandosi ancora negli spazi e nel numero delle persone disabili coinvolte, ma allo stesso tempo diminuendo il numero dei volontari, fu necessario assumere del personale che badasse a noi alla mattina e alla sera, assieme ad un’altra unità per la gestione della casa (per il lavaggio e stiro dei vestiti, per le pulizie, per la cucina, per un aiuto all’assistenza). Seppure con alcune differenze, questa esperienza continua ancora oggi ed è molto gratificante perché stimola la nostra autonomia e il nostro protagonismo.

L'infanzia.


Dagli alberi in fiore a primavera non si può capire quale sarà l’andamento dell’annata, quale sarà il raccolto. Le gemme che turgide scoppiano all’aprirsi del fiore, sono simbolo d’un lieto aprirsi ad un anno nuovo di speranza. Ma potrebbe non essere così…Un ritorno improvviso dell’inverno, gelando quei fiori potrebbe bruciare le speranze d’un abbondante raccolto. E poi la grandine che s’addensa improvvisa nei cieli, potrebbe strappare i frutti dall’albero prima che siano giunti a maturazione. E il vento impetuoso dei temporali estivi potrebbe persino sradicare la pianta, sradicando anche la possibilità per nuove fioriture, per nuove primavere.
Come per le piante, così per gli uomini…Chi avrebbe potuto immaginare osservando Onelio, un bambino così scatenato, così pieno di vita che negli anni tra il 1932 e il 1937 frequentava la scuola elementare a Bertiolo, che la sua vita sarebbe stata così diversa, da come la si sarebbe potuta immaginare, guardando alla sua vitalità, a quel suo carattere che gli impediva di star fermo un momento? Chi avrebbe potuto immaginare che in quella furia scatenata, avrebbe potuto maturare l’idea di farsi prete? Ma soprattutto chi avrebbe potuto immaginare che il destino, riservava a quel bambino una vita ben diversa da quella che il suo carattere l’avrebbe portato a vivere. Ora la mamma e la maestra si dannavano inutilmente per ottenere che smettesse di agitarsi, la vita avrebbe pensato a ridurlo su una carrozzella, progressivamente impedito in ogni suo movimento, fino a ridurre il suo corpo ad un tronco senza vita, che continuava tuttavia ad opporsi al destino per dare linfa ad una mente sempre viva, sempre innovativa.
Onelio Ciani è nato a Virpo una piccola frazione del Comune di Bertiolo il 24 febbraio del 1926. Così dovrebbe iniziare una vera biografia ufficiale. Ma pure se si volesse prescindere dalla vita così originale e particolare che il destino gli riserverà da grande, anche raccogliendo in paese le notizie sulla sua infanzia, si capisce subito che è impossibile raccontarne la vita nella forma asettica e distaccata della biografia. Sin da bambino la sua vita è stata un romanzo, del quale Onelio s’è trovato a fare l’involontario protagonista.
Aveva appena sei mesi quando la sua famiglia si trasferì dalla frazione di Virco al capoluogo di Bertiolo, in quella che sarà la casa di riferimento per l’infanzia e la giovinezza. La casa c’è ancora, rimessa a nuovo, intonacata e dipinta, lascia ancora intuire la struttura originaria d’una grande casa colonica a due piani. Una costruzione tipica dell’architettura rurale del Friuli. Davanti un grande cortile, e dalla parte opposta all’ingresso, gli orti il “vignal” e poi i campi…
Era l’ultima casa del paese e si apriva quindi sulla distesa sconfinata di campi della campagna friulana. Ma allo stesso tempo era centrale rispetto al paese. Dà infatti su una via che si stacca da quella principale al centro del paese, all’altezza della Chiesa, e che porta direttamente nella campagna. E’ anche la strada sulla quale si affaccia la canonica, per cui Onelio da ragazzo nel raggio di centro metri aveva casa, canonica e Chiesa.
Già nel fatto che i suoi genitori fossero finiti ad abitare nella via attorno alla quale si sviluppo il Borc di Pressec, e che collega in pochi metri quelli che saranno i punti di riferimento della sua vita, si potrebbe ritrovare un primo segno del destino che lo porterà a farsi prete. A pochi passi da casa c’era la Chiesa che frequentava ogni mattina, facendo il chierichetto. Ogni giorno, alle sei di mattina. Quando d’inverno era ancora buio e si doveva correre in quel breve tratto di strada per sgranchirsi a riscaldarsi. E c’era freddo anche dentro la Chiesa. L’aria espirata s’addensava in piccole nuvole, come nuvole d’incenso. Al Santus il suono del campanello per diffondendersi nella navata sembrava dovesse riuscire ad incrinare la cappa d’aria gelida che riempiva la Chiesa.
Gli costava fatica stare fermo e composto come richiedeva il parroco, ma per i chierichetti c’era anche quella che oggi si direbbe una “paghetta”. Molto modesta, ma comunque importante per un ragazzo che veniva da una famiglia non certo benestante.
I suoi si erano trasferiti nella casa di Bertiolo come coloni delle Suore della Divina Provvidenza, che detenevano la proprietà sia della casa sia dei campi che coltivavano. Pagavano un affitto annuo come i coloni, ma dovevano anche lasciare alle suore metà dell’uva e della produzione di bachi da seta, come se fossero stati mezzadri e provvedere anche alle legna per la casa delle suore. Era una situazione normale e molto diffusa nella campagna friulana, costituita da grandi latifondi gestiti da coloni e mezzadri. Una condizione che consentiva alle famiglie dei contadini di avere di che vivere ed allevare i figli, e che consentirà alla famiglia di Onelio di mantenerlo in Seminario. Perché, come si diceva al tempo, un segno che Dio ti ha prescelto come suo ministro è anche quello di averti fatto nasce in una famiglia che riesce a sostenerti economicamente per avere l’istruzione necessaria per diventare prete.
Nella grande casa colonica vivevano assieme due famiglie. Nonno Tin il patriarca, con le famiglie dei suoi due figli Guglielmo e Tarcisio (Ciso) con le rispettive mogli Taide e Tunine (Atonia) e i figli. In tutto undici persone. Guglielmo il padre di Onelio, alla fiera di S.Simone a Codroipo, aveva conosciuto Taide. Raccontava sempre d’aver avuto un vero colpo di fulmine dal quale era nato subito, prima ancora del matrimonio, Onelio. Come da quel colpo di fulmine avesse potuto nascere addirittura un prete, non riusciva a capirlo. Del resto anche la moglie quando parlava del figlio in seminario, parlava d’aver “perso” un figlio.
I genitori di don Onelio frequentavano la chiesa tutte le domeniche e le feste comandate, come tutti in paese, ma non erano persone particolarmente legate alla chiesa, non erano dei bigotti, direbbero le sorelle che ho contattato per avere notizie sull’infanzia di don Onelio, e certo non c’era nulla nel comportamento di Onelio ragazzo alunno delle scuole elementari che facesse presagire la sua scelta di entrare in seminario. “Era un vero monello” aggiungono le due sorelle, ricordando una serie di aneddoti dai quali emerge la figura d’un ragazzo estremamente vivace, ma che sapeva suscitare una immediata simpatia sia tra i coetanei che tra gli adulti.
Non gli piaceva il lavoro dei campi ed i genitori facevano fatica a coinvolgerlo e farsi aiutare da lui, ma poi sapeva far diventare un gioco il lavoro monotono e faticoso di pompare l’acqua dal pozzo per abbeverare le bestie della stalla. Aveva invece una grande manualità e gli “andava di mano” qualsiasi lavoro da artigiano.
Nei ricordare la sua infanzia più che la casa, senza illuminazione elettrica, don Onelio ricordava il cortile, con un grande cocolàr (noce), sul quale amava arrampicarsi per nascondersi, ed un grande moràr (gelso) il luogo preferito per la caccia ai passeri. Quella della caccia ai passeri era stata una sua grande passione da ragazzo, sia con il flobert che con la fionda. Passeri che poi finivano in padella ad integrare il povero menù quotidiano. Finchè non gli capitò di assistere all’agonia di un passero che aveva ferito. Avrebbe dovuto ucciderlo, come sapeva fare e come altre volte aveva fatto, spezzandogli il collo tra le proprie dita. Ma non trovò il coraggio, e fu costretto ad assistere all’agonia del povero uccello.
Fu per lui come una prima illuminazione sul dolore della natura e rinunciò immediatamente alla sua passione di cacciatore. Il grande noce non c’è più, ma il “moràr” c’è ancora, così come lo ricordava quando orami in carrozzella rievocava la sua infanzia “scapestrata”.
Ma il primo vero incontro con il dolore dell’umanità, con “l’incomprensibile” disegno della vita degli uomini, è stato quello della morte della sorella Nella. Aveva già sei anni nel 1932 quando è nata la sua seconda sorella. Una età nella quale un ragazzo è già in grado di avere sentimenti di provare emozioni. Un ragazzo a sei anni prova un attaccamento istintivo ed immediato per la sorellina appena nata. Nella si era rivelata subito una bambina eccezionale che a sei mesi già diceva mamma. Ma a sei mesi, con la frase con la quale commentava anche la sua vicenda personale, “nell’imperscrutabile disegno della Provvidenza”, la sorella è venuta a mancare. A sei anni non si ha ancora coscienza di che cosa significhi vivere, di che cosa significhi morire. La morte viene spiegata ad Onelio con la scelta di Dio di prendersi Nella tra i suoi angeli. L’invidia “perchè Dio ha scelto lei e non me”, s’unisce alla sofferenza “perchè lei non c’è più”.
“Ma quando per la prima volta è arrivato a casa a dire che avrebbe voluto farsi prete?” chiedo alle sorelle.
Scrivendo una biografia si deve cercare di mettere in evidenza quali sono stati i momenti più importanti nella vita che si vuole raccontare. Nella vita d’un prete, la scelta di farsi prete, costituisce il momento chiave di tutto il resto della sua vita. Per questo avrei voluto sapere qualcosa di particolare sul momento della decisione di don Onelio. Ma le sorelle non hanno un ricordo preciso al riguardo. Anche l’interessato quando gli ponevo con insistenza la domanda, mi rispondeva che in verità non c’era stato un momento preciso. Non è detto che la vocazione e quindi la scelta di farsi prete, debba essere il risultato di un colpo di fulmine o di una improvvisa illuminazione. E’ più facile che sia un percorso nel quale tanti elementi spesso anche casuali e marginali ed apparentemente ininfluenti, concorrono a formare la decisione.
La vita dell’uomo è come una sorgente d’acqua che non ha un alveo dove scorrere. Non si sa quindi quali percorsi possa prendere, dove possa sfociare. Mentre scende incontra ostacoli che l’arrestano, che la fanno deviare ora da una parte ora dall’altra. Qualcuno dall’esterno la indirizza in un senso o nell’altro alzando degli argini, scavando l’alveo. Alle volte si incanala dove è stata indirizzata, altre invece tracima, rompe gli argini, e trova percorsi nuovi rispetto a quelli che qualcuno gli voleva imporre dall’esterno. Così per la vita dell’uomo, così per la vocazione, mi diceva don Onelio, quando insistevo per capire quale era stato il momento cruciale per la scelta che poi avrebbe condizionato tutta la sua vita.
A undici anni un ragazzo non è ancora in grado di scegliere. Una serie di fattori e di circostanze, e non un fatto preciso, l’avevano indotto a valutare con interesse la scelta di farsi prete, e quindi di entrare in seminario per seguire il percorso di formazione che porta un uomo a diventare ministro di Cristo. Ha influito senz’altro la sua frequentazione della Canonica, a pochi passi da casa sua, del parroco Mons. Celledoni e del capellano pre Dante Gregoris. Ha influito probabilmente il fatto che al tempo che il rettore del Seminario diocesano fosse di Bertiolo, e che quindi logicamente avesse cercato di stimolare il formarsi di nuove vocazioni nel suo paese. Era già entrato in Seminario Gelindo Ciani, suo amico, di due anni più anziano di lui. Ha influito senza dubbio il ricordo della sorella morta, che era tra gli angeli di Dio e che, pensava, Dio gli aveva assegnato come personale angelo custode. Quando con le sorelle salivano le scale per andare a dormire, scherzavano recitando le preghiere per i morti come aveva insegnato loro la madre. Ma poi, da solo sotto le coperte, mentre aspettava il sonno pensava al suo personale angelo custode. Farsi prete avrebbe significato in qualche modo starle più vicino, restare sempre in contatto con lei.
Una serie di elementi esterni che hanno indotto l’acqua a prendere un percorso non usuale per un ragazzo.
Non è stata comunque una scelta nata in famiglia. Anche se la famiglia non ha fatto nulla per ostacolarla. Al tempo una famiglia di contadini per il figlio primogenito e per giunta l’unico figlio maschio, immaginava altri percorsi di vita. Come si è già ricordato mamma Taide parlava del figlio seminarista come d’un “figlio perso”, il padre era anche più esplicito nel criticare una scelta che toglieva alla famiglia braccia da lavoro. Le sorelle tuttavia non hanno un preciso ricordo di quando don Onelio un giorno è arrivato a casa per comunicare questa sua intenzione, e di come la prospettiva d’un figlio prete, sia stata accolta in famiglia.
Comunque, indipendentemente da quale sia stata la causa e la motivazione, dato certo della biografia è che l’ottobre del 1937, finite le scuole elementari, don Onelio entra in Seminario a Castellerio per frequentare la prima media.

Introduzione.

Non è facile scrivere la biografia d’una persona che non c’è più. Con la sua morte s’è persa la possibilità di farci raccontare e spiegare dal di dentro della sua esperienza umana di vita, di farci capire quali siano stati i momenti cruciali e più importanti che hanno determinato lo sviluppo della sua vita. S’è persa la possibilità di capire il perché d’un percorso originale di vita.
Nel caso di un prete, ad esempio, come è stato don Onelio, s’è persa la possibilità di capire quale sia stato il momento della svolta radicale, quello nel quale ha avvertito la chiamata al sacerdozio. Può essere stato anche il momento nel quale ha deciso di entrare in Seminario. Ma a undici anni non si è ancora in grado di fare ancora le scelte fondamentali per la vita. Se fosse ancora tra noi, vorrei chiedergli quale è stato il momento successivo, nel quale ha deciso di confermare per la vita la scelta di farsi prete, e quali siano state le motivazioni profonde che l’hanno indotto a dedicare la propria vita alla testimonianza della predicazione del Vangelo.
Allo stesso tempo gli vorrei chiedere come si sia sentito, il giorno che a trenta anni gli è stata diagnosticata la sclerosi multipla, quando ha saputo che avrebbe trascorso il resto della sua vita in carrozzella. Come poi è avvenuto. Come si sia sentito il giorno nel quale ha capito, che la sua vita sarebbe stata così diversa da come se l’era immaginata e l’aveva progettata.
“Parcè a mi Signor cheste cròs? Perchè Signore a me questa croce?” Vorrei sapere come si sia risposto a questa domanda. Anche se in effetti la risposta è in quella che sarà poi la sua vita, che cercherò di ricordare in queste pagine, con l’aiuto e la testimonianza delle persone che l’hanno conosciuto. Ma è la risposta che è venuta dopo, meditata. Vorrei sapere la risposta di quel momento, di come sia riuscito a fare sue le parole di Cristo nel Getzemani. “Padre mio se vuoi allontana da me questo calice di dolore. Però non sia fatta la mia volontà, ma la tua”
Anch’io l’ho conosciuto. E proprio perchè l’ho conosciuto, mi pare doveroso assumermi l’incarico di raccontarne la vita. Ho conosciuto una persona straordinaria, e mi sento in dovere di darne testimonianza. Il mio racconto potrà non essere all’altezza, dal punto di vista letterario, perché non sempre si riesce ad esprimere quello che si sente dentro, e si vorrebbe esprimere, e non è facile trasferire ad altri le emozioni che il contatto con una persona eccezionale, come è stato don Onelio, ti ha fatto provare. Oppure potrò non essere all’altezza del personaggio che voglio raccontare, perchè non l’ho conosciuto abbastanza a fondo, o piuttosto perchè non sono stato all’altezza di capirlo. Per questo mi farò aiutare da chi l’ha conosciuto meglio, da chi gli è stato più vicino, da chi ha condiviso con lui giorno dopo giorno l’esperienza terribile del proprio corpo che si irrigidisce e muore per il progredire inarrestabile della malattia.
L’ho conosciuto anch’io, quand’era già molto malato. L’ho conosciuto come si va a conoscere ed a trovare un ammalato: cercando di scherzare, di far in modo che dimentichi, piuttosto che cercando con lui di capire. E da questo fargli compagnia scherzando, è nato la biografia romanzata che ho scritto assieme a lui, e che ho pubblicato con il titolo “Anche domani sorgerà il sole”. Ma era appunto un modo di scherzare. Ora vorrei ripartire dal ricordo dei colloqui fatti con lui, pranzando alla mensa della Comunità Piergiorgio, per ricostruirne la vita, e non solo nei fatti. Vorrei a posteriori cercare di capirlo, nel suo pensare e nel suo sentire, per portarlo ad esempio, a me che scrivo ed a chi mi leggerà. L’esempio di un santo, o forse meglio di un martire del ventesimo secolo.
Nell’iconografia della Chiesa i martiri si riportano con in mano la pala del martirio. Per Don Onelio si può fare a meno della palma, ritraendolo nella carrozzella di disabile sulla quale ha passato la maggior parte della sua vita, si ritrae in quella carrozzella la palma d’un martirio più grande di quello della perdita della vita. E’ il martirio della vita che si perde un po’ alla volta, ogni giorno di più. Non la sofferenza di un attimo, ma la sofferenza di una vita! Un dolore senza speranza che scava il tuo cuore, come una goccia scava la pietra.
E se santo e martire è chi testimonia con la morte la propria adesione al Vangelo, don Onelio ha tutti i titoli per essere considerato tale, con la testimonianza d’una morte che è durata una vita intera, d’un sacrificio della propria vita che s’è consumato giorno per giorno, sempre più inchiodato alla sua carrozzella, come ad una croce.