sabato 3 gennaio 2009

Il ricordo di Anna.


Anna è entrata in Comunità nel 1976 e ci vive ancora. Non ha vissuto l’esperienza della nascita, che riporta come testimonianza di altri, ma per oltre quaranta anni la sua vita si è intrecciata con quella della Comunità...e per trenta con quella di don Onelio.

L’origine della Comunità è, come probabilmente molti sanno, strettamente legata alle figure di due sacerdoti: il primo, don Onelio Ciani, ammalato di sclerosi multipla, e il secondo, don Piergiorgio Fain, cappellano in una parrocchia vicino all’istituto riabilitativo Gervasutta di Udine.
Come mi è stato riferito, l’incontro decisivo fra i due preti avvenne nel 1970 proprio tra le mura del Gervasutta, dove don Onelio era ricoverato e dove don Piergiorgio andava ad animare le persone dell’istituto con i ragazzi della sua parrocchia. Don Onelio, leggendo la storia di una piccola comunità marchigiana di disabili nata qualche anno prima per renderli protagonisti della propria vita, decise di andarla a visitare assieme a don Piergiorgio, ad altri 5 ospiti e amici del Gervasutta e a dei volontari.
Il viaggio voleva essere un’occasione per conoscere l’esperienza di Capodarco e per rendersi conto se la stessa idea di comunità fosse fattibile anche a Udine…
Così fu. Purtroppo però quei giorni furono fatali per don Piergiorgio, poiché, mentre aiutava una persona a infilarsi il salvagente in mare, ebbe un infarto e non riprese più conoscenza.
So che nonostante questo fatto così drammatico, il legame con Capodarco e la sua esperienza di comunità ormai si era instaurato. I contatti continuarono per tutto l’anno e a ottobre, anche grazie all’aiuto di alcuni comunitari di Capodarco, un gruppetto di disabili e volontari friulani, tra cui in primis don Onelio, decise di iniziare l’avventura della convivenza all’interno di un ex asilo a Treppo Grande. L’esperienza, motivata da tanto entusiasmo e voglia di donarsi gli uni agli altri nonostante le difficoltà economiche e tecniche esistenti, fece così scalpore che dopo pochi mesi ecco entrare in scena il terzo prete decisivo per la Comunità, don Emilio De Roja.
Quest’ultimo, che aveva fondato una casa di accoglienza per giovani disadattati in periferia di Udine, chiamata Casa dell’Immacolata, decise infatti di donare il primo edificio utilizzato per il suo collegio, avendo ormai fatto costruire uno stabile nuovo. Inoltre con i suoi ragazzi adattò la casa per farla diventare accessibile.
In questo modo il 17 luglio 1971 prese corpo effettivamente l’attuale Comunità, intitolata a don Piergiorgio per sottolineare che chiunque ne avesse prima o poi fatto parte era invitato ad andare almeno un po’ al di là del proprio io come aveva fatto lui.

Mi hanno raccontato che i primi “avventurieri” erano meno di dieci persone, di cui la maggior parte disabili fisici, che venivano seguiti e ad aiutati da un numero variabile di volontari, i quali si alternavano di giorno e di notte. Questo gruppo, a parte un paio di persone che erano arrivate direttamente da Capodarco per sostenere la nascita di un nuovo obiettivo comunitario, proveniva tutto dall’Istituto Gervasutta.
Con il passare dei mesi però si aggiungono altri ospiti, raggiungendo quasi il numero di 15 persone che convivevano e condividevano gli spazi, “accampati” alla meglio. Accanto a questi disagi tecnici, poi, si aggiungevano anche quelli economici: Don Onelio ricordava sempre che la prima cassa comune della Comunità consisteva di ben 500 lire!
Per far fronte al sostentamento di tutti i comunitari, quindi, fu necessario che ognuno si rimboccasse le maniche, sia per quanto riguardava l’assistenza che per le attività remunerative.
Si iniziò così una raccolta di carta e stracci in giro per Udine e dintorni (a quei tempi infatti fruttava bene), grazie all’aiuto di alcuni volontari che affiancavano un nuovo ospite della Comunità che percorreva la città in lungo e in largo col suo carretto. A questo si aggiungevano le offerte di amici e simpatizzanti e le prime attività che alcune aziende commissionavano alla Comunità, come ad esempio il rifinimento di stivali femminili o di neon per acquari.

A quei tempi all’interno della Comunità il clima che respiravamo era di entusiasmo e di intraprendenza, e si andava costruendo qualcosa che assomigliava a una famiglia. E come in ogni famiglia che si rispetti a volte accadevano anche episodi buffi, che magari all’inizio ci sembravano seri, ma che alla fine si rivelavano comici e rallegravano così l’atmosfera quando le diversità fisiche e psicologiche si facevano sentire.
Nonostante tutto questo fermento e questa voglia di fare, dall’ esterno l’esperienza della Comunità Piergiorgio era vista negativamente e i comunitari erano considerati un gruppo di “matti”… Però noi abbiamo continuato imperterriti per quella strada. E non era passato neanche un anno che c’erano già una marea di volontari, amici e affezionati che aiutavano come potevano, o venendo direttamente in Comunità per prestare assistenza e sistemare la casa, o con delle offerte. In questo modo si ottenne anche l’approvazione e l’incoraggiamento del vescovo, oltre che delle parrocchie della zona.

Voglio ricordarvi che lo sviluppo della nostra realtà, almeno agli inizi, è stato garantito e supportato, oltre che dai collaboratori di Udine, da alcuni nostri amici di Capodarco. Questi si sono fermati quasi un anno in Comunità Piergiorgio per aiutarci a dare l’ impronta decisiva, lasciandoci comunque l’autonomia nelle scelte organizzative ed economiche. Poi pian piano siamo riusciti ad andare avanti da soli, pur mantenendo per lungo tempo un legame affettivo e anche di aiuto con Capodarco.
Un altro contributo essenziale secondo me fu quello del volontariato, sia individuale che di gruppo. Nei primi anni ’70, infatti, il volontariato aveva assunto un significato importante all’interno delle esperienze nuove che, come Capodarco, valorizzavano gli “ultimi” per renderli persone a tutti gli effetti, mettendoli al centro di una vita pressoché normale.
I volontari che ci venivano ad aiutare erano sia maschi che femmine, per lo più giovani, che prestavano il loro servizio parzialmente, per qualche ora al giorno, o continuativamente, vivendo in Comunità. Questi, in particolare, avevano fatto proprio una scelta di vita, perché avevano deciso di condividere tutto con chi aveva meno. Spesso queste persone hanno poi perseverato nella loro scelta anche al di fuori della Comunità, dando sempre la precedenza ai disabili o alle persone emarginate.
Altre figure per noi importanti furono sicuramente gli obiettori di coscienza, all’inizio non ancora legalmente riconosciuti, che diventarono presto un supporto fondamentale per tutti i comunitari. Proprio come in una famiglia si occupavano di varie cose, dal portarci in giro al farci assistenza, dal dedicarsi alla cucina fino all’affiancarci nella nascente attività di rilegatura. Infatti, dopo i primi anni di commissioni esterne che alla lunga non ripagavano degli sforzi che stavamo facendo, decidemmo di metterci in proprio, dando inizio alla prima rilegatoria. Grazie alla donazione di alcuni, seppur vecchi, macchinari e all’aiuto esperto di volontari (tra cui proprio un rilegatore in pensione e uno, disabile, che aveva una piccola attività a domicilio), inaugurammo nel 1978 un’attività che dava lavoro ai comunitari ma anche che ci permetteva di vivere la dimensione lavorativa, dando nuovo senso alla nostra vita.

Pian piano i laboratori si allargavano, sia con le persone interne alla Comunità che con qualche esterno diurno, senza però che ci fosse ancora stato un effettivo riconoscimento formale come Centro Diurno. Questo avvenne verso la fine del 1977: la Comunità Piergiorgio veniva ufficialmente definita Centro Medico Sociale, con tanto di servizio di fisioterapia. Inoltre con le rette che l’Azienda Sanitaria (la vecchia USL) pagava per ogni comunitario interno si iniziò ad assumere alcuni dipendenti, tra cui una fisioterapista. Grazie a questa nuova entrata, aggiunta alla raccolta di carta e stracci (perché la rilegatoria ancora non riusciva a produrre fondi), si riuscì a terminare le sistemazioni dell’edificio in uso (alcune anche causate dal terremoto del 1976) e a costruire gli attuali nuovi fabbricati.

Voglio soffermarmi un attimo a raccontarvi come abbiamo vissuto il terremoto che ha colpito tutto il Friuli nel 1976.
A maggio io non ero ancora arrivata in Comunità, ma a settembre c’ero eccome!
A parte il tetto, la Comunità, grazie alle murature di una volta, era uscita abbastanza indenne dalla scossa di maggio. Ovviamente non era stato possibile evitare l’enorme spavento di tutti.
Ricordo che verso le 17:30 dell’11 settembre mi trovavo nella stanza dell’attuale caminetto e stavo scrivendo a macchina delle lettere. Improvvisamente si sentì un fortissimo boato e, prima che me ne rendessi conto, mi trovavo fuori, sulla piazzetta con la fontana, che oggi è stata soppiantata da molti condomini. Qui intorno a quei tempi infatti c’era praticamente solo aperta campagna. Quindi mi ritrovai all’esterno, senza neppure aver avuto il tempo di capire chi mi ci aveva portato! Mentre ci trovavamo fuori assistemmo impotenti e impauritissimi ad altre scosse che facevano oscillare la Comunità da destra a sinistra, quasi che non sapesse da che parte cadere. Per fortuna tutti erano riusciti ad uscire in tempo! Per quella notte e altre successive, non fidandoci di rientrare (se non per le emergenze e per mangiare), abbiamo addirittura dormito in tre dentro al camion che si usava per la raccolta della carta. Mettemmo due o tre materassi e qualche coperta; un'altra persona dormì nella cabina e noi, da dietro, non capivamo se i movimenti che sentivamo fossero ancora scosse di terremoto o i movimenti di quella persona nel sonno!
Quando ci decidemmo a rientrare in Comunità prendemmo in pieno la scossa delle 5 del mattino del 15 settembre, anche se non ci recò danno, per fortuna! La paura però non fece 90, fece 100! Dal bar vicino arrivava addirittura una signora con una bottiglietta di cognac per stimolarci e aiutarci a vincere il panico.
Poi, grazie a Dio, quei giorni, vissuti tra il drammatico e il comico, terminarono e fortunatamente, a parte il tetto e alcune crepe, non ci furono grossi danni, nemmeno alle persone. Restarono solo dei ricordi indelebili. Con l’anno successivo, come ho detto sopra, partimmo con la ristrutturazione e con l’ampliamento dell’intero stabile.


Nel 1977, infatti, oltre a completare l’ambiente principale in cui si viveva, iniziò anche la demolizione dei box (delle ex-porcilaie che erano state fino a quel momento adibite a lavanderia, guardaroba e piccolo laboratorio) per recuperare l’area in modo da costruire gli attuali edifici. Questo spazio era stato dato in donazione da parte del Comune alla Comunità ed era quindi edificabile. Mi ricordo che per recuperare i fondi necessari per la nuova struttura nascente, tutti si davano da fare, chi lavorando nella rilegatoria appena nata, chi andando a fare public relations sul territorio. Ognuno in questo modo cercava di dare il proprio contributo con le capacità che poteva mettere a disposizione per la Comunità. Io, che avevo problemi di vista e di manualità, ma che avevo tanta voglia di stare tra la gente e comunicare, iniziai ad andare sia nelle parrocchie che nelle scuole (elementari e medie), coinvolgendo bambini e adulti.
Un’altra attività di cui ci occupavamo per farci conoscere era l’organizzazione di lotterie e altro. Ricordo che una volta, in un freddo dicembre, nel giro di tre giorni avevo recuperato tra i 18 e i 19 milioni di lire, che allora era davvero un’enorme cifra! Finché, anche grazie ai contributi e ai finanziamenti della Regione e del Comune, venne posata la prima pietra: era il 24 dicembre 1981.
Nel luglio dell’anno successivo vennero poi inaugurati i primi locali: un piccolo ufficio (il predecessore dell’Ufficio H attuale), il laboratorio. Il laboratorio iniziò ad essere utilizzato dalla piccola cooperativa Arte e Libro e dalla neonata cooperativa Legotecnica, che dava lavoro a disabili con maggior manualità.
Quasi contemporaneamente, poi, venne avviato un centro diurno negli spazi in cui oggi si trovano gli uffici amministrativi. Quella volta il numero di persone era ancora limitato e ai trasporti provvedevano gli obiettori e i volontari della Comunità stessa.
Siccome il Centro Diurno andava sempre più ampliandosi per il numero di persone coinvolte, con l’obiettivo di dare un periodo di respiro alle famiglie e agli utenti l’opportunità di inserirsi nel tessuto sociale anche imparando a compiere dei piccoli lavori, qualche anno dopo la Legotecnica si spostò in un’altra sede e lasciò lo spazio sia al Centro Diurno che all’Arte e Libro. Nel frattempo venne ingrandito l’Ufficio H, costruita la sala mensa, ampliati gli attuali uffici e le stanze sotterranee.

Sempre in quest’ottica di ingrandimento della Comunità (fine ’77 – inizi ’88), venne creato il primo mini-nucleo abitativo in un appartamento di via Asmara, di proprietà del Comune, a cui veniva pagato un affitto simbolico. Questo nucleo era costituito da tre persone, Leonilde, Paola e Grazia, che, dopo un periodo trascorso in Comunità, sono di fatto state le prime persone a volersi lanciare in questa nuova esperienza. Anche loro si autogestivano, con un unico piccolo contributo economico da parte della Comunità e tanti aiuti dai volontari e dagli amici. In questa loro scelta furono sempre stimolate e sostenute da Don Onelio e da Bruno.
Questo piccolo gruppo andò avanti fino alla morte di Leonilde, momento in cui iniziarono a cambiare alcune cose, sia per quanto riguarda la composizione del nucleo che per la struttura stessa. Dopo un periodo in cui subentrarono altre persone provenienti dalla residenza, negli anni ’90, per apportare alcune modifiche e ampliare l’appartamento, l’esperienza venne sospesa. Riprese nel marzo del ’94 e io stessa ne presi parte assieme ad altre 5 persone, di cui alcuni volontari. Eravamo autosufficienti per quanto concerneva l’assistenza e la gestione della casa, mentre per i pranzi e le cene soltanto per il weekend, perché durante la settimana andavamo in Comunità. Poi, dalla fine del ’95, ampliandosi ancora negli spazi e nel numero delle persone disabili coinvolte, ma allo stesso tempo diminuendo il numero dei volontari, fu necessario assumere del personale che badasse a noi alla mattina e alla sera, assieme ad un’altra unità per la gestione della casa (per il lavaggio e stiro dei vestiti, per le pulizie, per la cucina, per un aiuto all’assistenza). Seppure con alcune differenze, questa esperienza continua ancora oggi ed è molto gratificante perché stimola la nostra autonomia e il nostro protagonismo.

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