sabato 3 gennaio 2009

Ricordando Roby Margutti.

E’ stato don Onelio a farmi conoscere Roby Margutti. Gli aveva chiesto un incontro per verificare se la Comunità poteva in qualche modo aiutarlo nei suoi progetti, e il don aveva voluto che fossi presente anch’io. Ci sono immagini che non si riescono a cancellare. E la scena di Roby e don Onelio che si confrontano nell’Ufficio della Piergiorgio è una di quelle. Ambedue con il corpo irrigidito sulla carrozzina, ma con la mente piena di progetti, di voglia di fare… Come se l’iniziativa che non riusciva a trasferirsi ai muscoli del corpo, si fosse concentrata sul piano delle idee. Idee maturate nella rigidità del corpo e diventate anch’esse rigide ed inflessibili. Condividevano la stessa situazione di partenza, nell’immobilità totale del corpo sulla carrozzina, provocata dalla sviluppo in trenta anni della sclerosi multipla per don Onelio, da un incidente festeggiando il 21^ compleanno per Roby. Si battevano per lo stesso obiettivo delle pari opportunità: anche il disabile deve essere posto nelle condizioni di potersi realizzare. Ma sul modo avevano delle idee che parevano a loro contrapposte. E a nulla valeva la mia mediazione nel farli capire, che non erano contrapposte, ma solo diverse: due percorsi diversi per raggiungere la stessa meta. Due percorsi che per un tratto potevano essere anche riuniti e diventare una unica strada.
“Una comunità gestita dai disabili” diceva don Onelio, “costituisce l’unico mezzo possibile per mettere i disabili nella condizione di realizzarsi”. “Non basta!” replicava Roby “Si deve poter andare oltre, una comunità comporta comunque dei condizionamenti. Anche al disabile deve essere riconosciuta la libertà della “vita indipendente”.
C’erano a dividerli anche quaranta anni di storia sulla disabilità. Don Onelio aveva vissuto gli anni settanta. Sull’onda del ’68 aveva sviluppato l’idea della comunità, come mutuo aiuto. Stare assieme, per aiutarsi a vicenda, e nel mutuo aiuto recuperare l’autonomia... Erano ancora i tempi nei quali i disabili venivano nascosti in famiglia. E quando questa non c’era ospedalizzati a vita. Spesso in un ospedale psichiatrico, che al tempo fungeva spesso anche da lungodegenziario. Le battaglie erano quelle per l’integrazione nelle scuole, nel lavoro, nella società, per il superamento delle barriere architettoniche e per la vivibilità del territorio anche da parte dei disabili. Roby arriva sul tema della disabilità, negli anni novanta. Prendendo atto delle conquiste ottenute si doveva andare oltre: il disabile ha diritto ad una vita indipendente, la società deve metterlo nelle condizioni di poter vivere la sua individualità.
Si sono poi incontrati altre volte. Don Onelio avrebbe voluto che Roby entrasse in Comunità, nella sua grinta ritrovava la determinazione che l’aveva spinto negli anni pionieristici della nascita della Comunità. Pensava in cuor suo d’aver trovato la persona giusta alla quale passare il testimone, la persona che avrebbe saputo dare nuovo vigore al suo sogno di una comunità per i disabili gestita dai disabili. Ma per Roby l’obiettivo era quello della vita indipendente…
Per loro “comunità” e “vita indipendente” erano diventate le parole di due fedi diverse, inconciliabili. Li guardavo, stupito, ammirato, confuso, provando vergogna di fronte a tanto coraggio... Per lottare in quelle condizioni, per non lasciarsi abbattere, per non rinunciare, per non abbandonarsi al più che giustificato vittimismo, non basta una idea… E’ necessario che l’idea diventi una fede, che ti trascina oltre l’immobilità del corpo. E le fedi non accettano compromessi, non possono essere che assolute…C’era negli occhi di quelle due persone che si guardavano e si parlavano immobili sulle loro due carrozzine, una luce che non avevo mai visto prima negli occhi di nessuna persona. Ho pensato che fosse quella luce a far in modo che vedessero anche in quelle condizioni la vita vivibile. Non solo! Che trovassero la forza per pensare anche agli altri, a coltivare progetti per tutte le altre persone nella loro situazione.
Mi piacerebbe immaginare di poterli ricordare entrambi, un giorno nell’incontro con una persona con la stessa luce negli occhi, capace di mettere assieme le loro idee. La Comunità gestita dai disabili nel 2000, non può essere più quella degli anni settanta del novecento, non può essere più una comunità sentita come valore in sé. Deve essere immaginata come un punto d’appoggio per la vita indipendente. In questo essere punto d’appoggio, per tutto il sistema della disabilità della Regione, mi sembrerebbe che potrebbero venire a sintesi le idee di Roby Margotti e di Don Onelio.
Nell’attesa mi resta il ricordo della luce di quegli occhi, nella sala del caminetto della Comunità Piergiorgio. Ardeva, come sempre, il fuoco con un grande ciocco. Solo un pezzo di legno morto. Ma una volta acceso è capace di riscaldare ed illuminare, come le parole e gli occhi di Roby e don Onelio, dai loro corpi, come morti, immobili sulla carrozzina…Grazie ad ambedue per la vergogna che ho provato sempre davanti alla loro grandezza d’animo, alla profondità dei loro sentimenti, alla spudoratezza della loro speranza, alla oscenità della loro generosità, alla sfrontatezza del loro coraggio nel superare gli ostacoli, per trasformare le speranze in fatti concreti.
Se noi normodotati riuscissimo a vivere ogni giorno questa vergogna, a trasferirla ad altri, a farne la trama su cui sviluppare l’educazione dei giovani…

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